Carato: la Storia del peso che vale Oro

Il termine carato riveste in gemmologia e in oreficeria un duplice ruolo di grande rilievo: da un lato indica l’unità di peso delle pietre preziose, dall’altro funge da indice di purezza delle leghe auree, mutuando in ciascun ambito origini e tradizioni distinte ma intrecciate.

Origini ed etimologia

La parola “carato” proviene dall’arabo qīrāṭ (قيراط), a sua volta ereditato dal greco κεράτιον (kerátion, “piccolo corno” o “semi di carruba”), diminutivo di κέρας (keras, “corno”). Nell’antichità si credeva che i semi di carrubo avessero massa perfettamente uniforme, così da costituire un campione naturale ideale per pesare i materiali preziosi. Sebbene questo mito scientifico sia stato oggi sfatato (la massa dei semi varia anche del 25%), l’uso si consolidò e diede il nome alla misura.

Il carato come unità di massa per le gemme

Dal Medioevo fino al XIX secolo ogni regione adottava propri standard locali di “carato” per il peso delle gemme. Solo nel 1907 la Quarta Conferenza Generale dei Pesi e Misure di Parigi ratificò il carato metrico (o metric carat), fissandolo esattamente in 0,200 grammi. Da allora:

  • 1 carato = 200 mg;

  • per gemme inferiori al carato si utilizzano i “punti” (1 punto = 0,01 ct).
    Questa definizione uniforma oggi il mercato internazionale dei diamanti e delle pietre preziose, permettendo valutazioni di qualità e prezzo omogenee.

Il carato come misura di purezza dell’oro

In oreficeria “carato” designa anche un’unità proporzionale (su base 24) per esprimere il titolo dell’oro nelle leghe. In questo sistema:

  • 24 karat (24 k) corrispondono a oro finissimo (100% oro);

  • 18 k → 75% oro (18 parti su 24) e 25% altri metalli;

  • 14 k → 58,3% oro, e così via fino a 9 k (37,5%).
    Pur sostituita in parte dalla titolazione in millesimi (ad es. “750 ‰” per l’oro 18 k), la terminologia a carati rimane ancora oggi d’uso comune in gioielleria e nei marchi di qualità.

Standardizzazione storica

  • 1832, Sudafrica: primo tentativo di standardizzare il carato per i diamanti, basato su pesate medie di semi di carrubo, portando al valore approssimativo di 0,2 g;

  • 1907, Parigi: adozione ufficiale del carato metrico nella Convenzione del Metro;

  • Primi del Novecento: la maggior parte dei Paesi europei e del Commonwealth recepiscono la misura, mentre alcune tradizioni locali (come il Board of Trade inglese) mantengono lievi differenze fino alla definitiva armonizzazione decimale.

Impatto economico e culturale

Il carato, sia come peso che come purezza, è diventato sinonimo di valore e prestigio. Nel mercato dei diamanti, la “4 C” (Carat, Cut, Color, Clarity) fa del carato l’elemento chiave per il prezzo finale: a parità di qualità, un diamante di peso superiore vale esponenzialmente di più. Nell’immaginario collettivo, un gioiello “24 k” evoca purezza assoluta e lusso estremo, mentre leggere variazioni di lega (18 k, 14 k) bilanciano durezza, costo e resa estetica.

Dalle antiche bilance con semi di carrubo ai sofisticati bilancieri digitali, il carato ha percorso un’evoluzione millenaria, mantenendo intatta la propria centralità nel valutare l’“anima” di ogni pietra preziosa e la “nobiltà” di ogni lega aurea.

Con il suo duplice significato – peso e purezza – continua a scandire il tempo e il valore nel mondo della gioielleria, confermando un legame saldo tra scienza, tradizione e mercato globale.

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